La storia personale e la produzione letteraria di Agota Kristof ne fanno da decenni una autrice culto, letta, studiata, messa in scena, tradotta. A ripercorrerne la storia e la produzione saranno la scrittrice e sociolinguista Vera Gheno (che per le edizioni Casagrande ha tradotto Chiodi) e Fabio Pusterla. Saranno anche presentati dei materiali audiovisivi grazie all'Archivio RSI
Nata il 30 ottobre 1935 in Ungheria, Agota Kristof lascia il suo paese nel 1956, andando incontro all'esilio, quell'esilio che la logorerà per il resto della sua vita, riuscendole tanto insopportabile quanto l'orrore da cui scappava.
L’infanzia la trascorre a Csikvand, un piccolo villaggio nei pressi del confine austriaco. Dal 1945 il villaggio entra a far parte del blocco sovietico. Agota è figlia di insegnanti. All'età di nove anni, i suoi genitori si trasferiscono nella città di Köszeg, la famosa città di K in cui si svolgono i suoi romanzi. Qui continua i suoi studi e ottiene un diploma in matematica.
Sposa il suo insegnante di storia e nel 1956, insieme al bambino di quattro mesi e al marito, membro dell’opposizione al regime sovietico e coinvolto nell'insurrezione di Budapest, è costretta a fuggire. La meta sono gli Stati Uniti, ma approderà nella Svizzera Romanda, un po' per caso, e vi rimarrà fino alla morte (21 luglio 2011). Si pentirà di aver lasciato l'Ungheria, nonostante la perigliosa contingenza. Il successo letterario non guarirà mai lo scompenso dell'esilio.
Al suo arrivo a Neuchâtel, la Kristof lavora in una fabbrica di orologi e di notte scrive cose di una tristezza infinita, in cui mette a nudo un nuovo strazio, addirittura peggiore di quello vissuto durante la guerra. È lo strazio dell'esilio linguistico, dallo spossessamento dell'unica vera patria: la lingua.
L'acquisizione del francese è difficile. Agota si sente un’analfabeta, costretta a vivere in una terra straniera, dove si parla un idioma nemico. Alla lingua alloglotta si avvicinerà lentamente, imparandola con la figlia che va a scuola (e frequentando dei corsi grazie ad una borsa di studio della città di Neuchâtel). In francese inizia a tradurre le poesie che aveva scritto in ungherese all'età di tredici anni, le pièces teatrali e abbozza nuove prove letterarie. I suoi spettacoli vengono trasmessi da RTS. Agota Kristof accoglie il francese e scopre uno stile incandescente, fatto di dialoghi di una semplicità angosciante.
Spinta dal desiderio di raccontare la sua infanzia, inizia a scrivere il suo primo romanzo, Quello che resta (Le Grand Cahier), che vince il Premio Europeo A.D.E.L.F (Association des Ecrivains de Langue Française, che riunisce più di 1500 scrittori provenienti dai cinque continenti). È la storia di due gemelli che arrivano in un piccolo paese di provincia, in fuga dalla guerra che imperversa nella capitale. Qui vengono affidati alla nonna, una donna brutale ed oscena. Straziati dall'abbandono e dalla mancanza di affetto, i gemelli mettono in atto quello che ai loro occhi appare come l'unico modo per sopravvivere: l'irrobustimento fisico e morale. I loro esercizi di crudeltà sono atroci e al limite dell'umano.
(fonte del testo: RSI)
Nata il 30 ottobre 1935 in Ungheria, Agota Kristof lascia il suo paese nel 1956, andando incontro all'esilio, quell'esilio che la logorerà per il resto della sua vita, riuscendole tanto insopportabile quanto l'orrore da cui scappava.
L’infanzia la trascorre a Csikvand, un piccolo villaggio nei pressi del confine austriaco. Dal 1945 il villaggio entra a far parte del blocco sovietico. Agota è figlia di insegnanti. All'età di nove anni, i suoi genitori si trasferiscono nella città di Köszeg, la famosa città di K in cui si svolgono i suoi romanzi. Qui continua i suoi studi e ottiene un diploma in matematica.
Sposa il suo insegnante di storia e nel 1956, insieme al bambino di quattro mesi e al marito, membro dell’opposizione al regime sovietico e coinvolto nell'insurrezione di Budapest, è costretta a fuggire. La meta sono gli Stati Uniti, ma approderà nella Svizzera Romanda, un po' per caso, e vi rimarrà fino alla morte (21 luglio 2011). Si pentirà di aver lasciato l'Ungheria, nonostante la perigliosa contingenza. Il successo letterario non guarirà mai lo scompenso dell'esilio.
Al suo arrivo a Neuchâtel, la Kristof lavora in una fabbrica di orologi e di notte scrive cose di una tristezza infinita, in cui mette a nudo un nuovo strazio, addirittura peggiore di quello vissuto durante la guerra. È lo strazio dell'esilio linguistico, dallo spossessamento dell'unica vera patria: la lingua.
L'acquisizione del francese è difficile. Agota si sente un’analfabeta, costretta a vivere in una terra straniera, dove si parla un idioma nemico. Alla lingua alloglotta si avvicinerà lentamente, imparandola con la figlia che va a scuola (e frequentando dei corsi grazie ad una borsa di studio della città di Neuchâtel). In francese inizia a tradurre le poesie che aveva scritto in ungherese all'età di tredici anni, le pièces teatrali e abbozza nuove prove letterarie. I suoi spettacoli vengono trasmessi da RTS. Agota Kristof accoglie il francese e scopre uno stile incandescente, fatto di dialoghi di una semplicità angosciante.
Spinta dal desiderio di raccontare la sua infanzia, inizia a scrivere il suo primo romanzo, Quello che resta (Le Grand Cahier), che vince il Premio Europeo A.D.E.L.F (Association des Ecrivains de Langue Française, che riunisce più di 1500 scrittori provenienti dai cinque continenti). È la storia di due gemelli che arrivano in un piccolo paese di provincia, in fuga dalla guerra che imperversa nella capitale. Qui vengono affidati alla nonna, una donna brutale ed oscena. Straziati dall'abbandono e dalla mancanza di affetto, i gemelli mettono in atto quello che ai loro occhi appare come l'unico modo per sopravvivere: l'irrobustimento fisico e morale. I loro esercizi di crudeltà sono atroci e al limite dell'umano.
(fonte del testo: RSI)
Agota Kristof (Csikvand, Ungheria, 30 ottobre 1935 – Neuchâtel, 27 luglio 2011) ha vissuto in Svizzera romanda dal 1956. Ha lavorato dapprima in fabbrica, dove ha imparato la lingua della sua patria d'elezione, per poi farsi conoscere come scrittrice francofona. Il suo primo romanzo Le grand Cahier, pubblicato nel 1986 (come prima opera della "trilogie des jumeaux"), ha ottenuto un grande successo e ha ricevuto il titolo di Libro Europeo. Romanziera, drammaturga e poetessa, ha ricevuto per mezzo della sua opera un riconoscimento a livello internazionale.
Vera Gheno, sociolinguista specializzata in comunicazione digitale e traduttrice dall'ungherese, ha collaborato per vent'anni con l'Accademia della Crusca lavorando nella redazione della consulenza linguistica e gestendo l'account Twitter dell'istituzione. Insegna all'Università di Firenze, dove tiene da molti anni il Laboratorio di italiano scritto per Scienze Umanistiche per la Comunicazione, e in corsi e master di diversi atenei italiani. È autrice di articoli scientifici e divulgativi e per Einaudi ha pubblicato Potere alle parole (2019) e Le ragioni del dubbio. L'arte di usare le parole (2021).
Fabio Pusterla, nato a Mendrisio nel 1957, è poeta, traduttore e saggista e insegna letteratura italiana presso il Liceo di Lugano e l’Università della Svizzera italiana. Collabora a diverse riviste, tra cui i Quaderni italiani di poesia contemporanea, e dirige la collana poetica Le Ali dell’editore Marcos y Marcos. È autore, tra l’altro, di otto principali raccolte poetiche parzialmente riassunte nell’antologia Le terre emerse. Poesie 1985-2008 (Einaudi, 2009), cui hanno fatto seguito Corpo Stellare (2010), Argéman (2014) e Cenere, o terra (2018), tutti e tre pubblicati da Marcos y Marcos. Le sue opere sono state tradotte nelle principali lingue europee e hanno ottenuto numerosi riconoscimenti. A Fabio Pusterla sono stati dedicati il documentario di Danilo Catti Salamandre, gatti ciechi, rotaie (1998) e quello di Francesco Ferri, Libellula gentile (2018).
Vera Gheno, sociolinguista specializzata in comunicazione digitale e traduttrice dall'ungherese, ha collaborato per vent'anni con l'Accademia della Crusca lavorando nella redazione della consulenza linguistica e gestendo l'account Twitter dell'istituzione. Insegna all'Università di Firenze, dove tiene da molti anni il Laboratorio di italiano scritto per Scienze Umanistiche per la Comunicazione, e in corsi e master di diversi atenei italiani. È autrice di articoli scientifici e divulgativi e per Einaudi ha pubblicato Potere alle parole (2019) e Le ragioni del dubbio. L'arte di usare le parole (2021).
Fabio Pusterla, nato a Mendrisio nel 1957, è poeta, traduttore e saggista e insegna letteratura italiana presso il Liceo di Lugano e l’Università della Svizzera italiana. Collabora a diverse riviste, tra cui i Quaderni italiani di poesia contemporanea, e dirige la collana poetica Le Ali dell’editore Marcos y Marcos. È autore, tra l’altro, di otto principali raccolte poetiche parzialmente riassunte nell’antologia Le terre emerse. Poesie 1985-2008 (Einaudi, 2009), cui hanno fatto seguito Corpo Stellare (2010), Argéman (2014) e Cenere, o terra (2018), tutti e tre pubblicati da Marcos y Marcos. Le sue opere sono state tradotte nelle principali lingue europee e hanno ottenuto numerosi riconoscimenti. A Fabio Pusterla sono stati dedicati il documentario di Danilo Catti Salamandre, gatti ciechi, rotaie (1998) e quello di Francesco Ferri, Libellula gentile (2018).